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USA 2020: il punto sulle primarie del Partito Democratico alla vigilia del Super Tuesday

Le primarie del Partito Democratico americano vivranno domani un appuntamento decisivo. È già tempo, infatti, di Super Tuesday, la giornata nella quale saranno chiamati al voto ben 14 stati (Alabama, Arkansas, California, Colorado, Maine, Massachusetts, Minnesota, North Carolina, Oklahoma, Tennessee, Texas, Utah, Vermont e Virginia) e saranno assegnati 1.357 delegati su un totale di 3.979 che sceglieranno nella convention di Luglio, a Milwaukee, il candidato presidente del Partito Democratico.

Gli stati in ballo nel Super Tuesday sono molto rappresentativi del corpo elettorale statunitense. Si voterà, infatti, in molti stati del Sud (Alabama, Tennessee, North Carolina, Arkansas, Virginia, Oklahoma) dove c’è una forte presenza afroamericana, in due stati enormi come il Texas (roccaforte repubblicana) e la California (roccaforte democratica) che hanno delle grandi comunità latine e asiatiche e infine in aree come il Massachusetts, lo Utah o il Colorado dove la maggior parte degli elettori è composta da cittadini bianchi.

Si tratta, dunque, di una tappa fondamentale per chi vuole sfidare Donald Trump alle prossime elezioni presidenziali di novembre. Ma come arrivano i candidati alla vigilia di questo appuntamento elettorale?

Bernie Sanders: il grande favorito ma…

Al momento Bernie Sanders è in testa nei sondaggi nazionali e secondo il modello elaborato da FiveThirtyEight ha il 28% di probabilità di ottenere la maggioranza assoluta di delegati e il 64% di ricevere la maggioranza relativa. Come già accaduto nel 2016, quando perse alle primarie contro Hillary Clinton, Sanders può contare sul sostegno di un elettorato giovane e progressista (uno degli endorsement di peso ricevuti da Sanders è quello della giovanissima deputata Ocasio Cortez) ed è senza dubbio il candidato con l’organizzazione e la capacità di mobilitazione migliori.

La sua candidatura, però, presenta diversi aspetti problematici. Sanders è dichiaratamente socialista e ha espresso in passato simpatie (non rinnegate nell’ultimo dibattito televisivo) per il regime cubano di Fidel Castro. Chiaramente in Italia un background del genere non rappresenterebbe un grosso problema, ma negli Stati Uniti (e nel Partito Democratico) che hanno una lunga tradizione moderata e anti-comunista, il suo passato e le sue posizioni radicali pongono diverse questioni.

C’è da dire, però, che il contesto politico americano è profondamente cambiato. Negli ultimi anni abbiamo assistito ad una forte radicalizzazione e polarizzazione sia del Partito Repubblicano che di quello Democratico. Le proposte di Sanders sulla sanità pubblica (Medicare for All), ad esempio, non sono più radicali di quelle avanzate da altri candidati in queste primarie (una su tutte Elisabeth Warren). In un contesto del genere, dunque, le idee socialiste del senatore del Vermount potrebbero spaventare di meno l’elettorato americano.

Per vincere queste primarie, però, Sanders dovrà portare più persone alle urne (uno degli obiettivi da lui stesso dichiarati alla vigilia) e “conquistare” l’elettorato afro-americano. Nel 2016, infatti, proprio l’incapacità di far penetrare il suo messaggio nella comunità afro-americana gli costò la sconfitta. E quest’anno non sembra andare molto meglio.
In South Carolina, infatti, solamente il 17% degli elettori afroamericani ha dichiarato di aver votato Sanders contro il 61% che ha detto di aver scelto Biden. Da qui passerà inevitabilmente il futuro politico di Sanders sia in queste primarie che in un’eventuale confronto contro Trump.

Il rientro in scena di Biden dopo la vittoria in South Carolina

Qualche settimana fa aveva fatto discutere la scelta di Joe Biden di abbandonare il New Hampshire il giorno stesso delle elezioni per andare direttamente in South Carolina. Il risultato raggiunto in New Hampshire dall’ex vice presidente di Obama è stato – come prevedibile – disastroso, ma la decisione di puntare tutto sul South Carolina si è rivelata alla fine vincente.

Biden, infatti, ha sfruttato a pieno la sua popolarità tra gli elettori afroamericani stravincendo le primarie con il 48% dei voti, staccando Sanders di quasi 30 punti e ottenendo ben 39 delegati. In questo modo è riuscito a recuperare quasi tutto lo svantaggio accumulato in Iowa, New Hampshire e Nevada (60 a 54 il computo dei delegati a favore di Sanders) e a dare nuova linfa ad una campagna elettorale che sembrava essere giunta al capolinea.

Al momento Joe Biden, dunque, sembra l’avversario più credibile di Sanders, dall’alto della sua esperienza e credibilità istituzionale e della sua capacità di intercettare l’elettorato afroamericano e (forse) quello moderato. In questi mesi, però, è sembrato spento e poco convincente (molto negative, ad esempio, le sue apparizioni nei primi due dibattiti televisivi) al punto da lasciar pensare che i due candidati più forti dell’ala moderata potessero essere Pete Buttigieg e Mike Bloomberg.

Il ritiro di Buttigieg e il fattore Bloomberg

Proprio oggi è arrivata invece – un po’ a sorpresa – la notizia del ritiro di Pete Buttigieg dalle primarie del Partito Democratico. L’ex sindaco di South Bend (Indiana) aveva ben figurato all’inizio di questa competizione elettorale, ottenendo il maggior numero di delegati in Iowa e portando avanti una campagna elettorale coraggiosa e innovativa (Buttgieg è stato il primo uomo dichiaratamente omosessuale a competere per la carica di Presidente degli Stati Uniti).

Due ottimi risultati che avrebbero potuto dare slancio alla sua candidatura (chi vince in Iowa solitamente ha un boost anche negli altri stati) se solo non si fosse consumato il disastro del voto elettronico in Iowa con conseguenti gravi ritardi nella comunicazione dell’esito elettorale e un pessimo ritorno d’immagine per tutto il Partito Democratico.

Il buon risultato di Klobuchar in Nevada (la senatrice del Minnesota è vista un po’ come l’alter ego di Buttigieg) e soprattutto il netto successo di Biden in South Carolina hanno ridotto al lumicino le sue speranze di vittoria. Di qui la decisione di ritirarsi dalla corsa alla Casa Bianca.

Questa scelta potrebbe avere degli effetti positivi sulla campagna di uno come Joe Biden, ovvero un candidato che punta principalmente su una fascia di elettori, quella moderata, molto vicina a Buttigieg. Si tratta tuttavia di scenari meramente ipotetici. Ne sapremo di più se e quando l’ex sindaco di South Bend effettuerà un endorsement a favore di uno dei candidati.

L’ultima variabile impazzita di questa campagna elettorale è l’entrata in scena di Mike Bloomberg. L’ex sindaco di New York ha scelto una strada mai intrapresa fin qui: iniziare la sua competizione direttamente nel giorno di Super Tuesday, ritenendo che i primi stati siano scarsamente rappresentativi della volontà popolare americana. Mentre, dunque, i suoi competitor si confrontavano in Iowa o in New Hampshire, Bloomberg inondava le TV nazionali e locali di spot televisivi contro l’uso delle armi e contro Donald Trump, spendendo cifre mai viste nella storia delle campagne elettorali americane.

È stato calcolato, infatti, che Bloomberg investirà per la sua campagna elettorale più di quanto abbiano fatto nel 2016 Trump e Clinton messi insieme. E non si tratta di soldi ricevuti tramite finanziamenti esterni, ma di un budget derivante dal suo sconfinato patrimonio personale (Bloomberg è co-fondatore e proprietario della omonima società di servizi finanziari).

La sua strategia fin qui è chiara: provare ad intercettare quel’elettore moderato, anche vicino al Partito Repubblicano, che ritiene Trump e Sanders (per motivi diversi) due figure inadeguate per svolgere la funzione di Presidente degli Stati Uniti d’America. I sondaggi fin qui lo danno in buona ascesa, ma il disastroso dibattito in Nevada e l’exploit di Biden in South Carolina ridimensionano un po’ la sua candidatura. Sarà comunque interessante valutare domani il suo consenso elettorale per capire se sarà una corsa a due tra Sanders e Biden o se ci sarà spazio anche per un fastidioso e facoltoso avversario.

 

Giuseppe Critelli
Giuseppe Critelli

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